28 GENNAIO 2009
Pellicce: le indossiamo inconsapevolmente
Dietro giacche, cappelli, guanti, borse, sciarpe, e accessori - anche
a basso costo - ornati di pelo, si nascondono veri e propri intarsi
di pellicce provenienti da animali appositamente scuoiati vivi.
Volpi, procioni, cani e gatti. Spesso crediamo che nel nostro caso
gli intarsi siano finti. Ma non è così.
GIOVANNA DI STEFANO
Il mercato delle pellicce, o meglio si dovrebbe parlare più
specificamente del mercato degli inserti in pelliccia, le tipiche
bordure di folto pelo che ornano i cappucci delle giacche, nasconde
una realtà di un orrore inimmaginabile. Quasi nessuno comprerebbe più
questi capi d'abbigliamento se conoscesse la loro vera origine: la
sofferenza che nascondono è qualcosa di inaudito e proviene
direttamente dalla Cina. Gli animali cosiddetti `da pelliccia' quali
volpi, procioni, conigli, ma anche cani e gatti (che in Cina non sono
considerati animali d'affezione) vengono allevati in condizioni
indescrivibili: tenuti in gabbie dove possono a malapena rigirasi,
costantemente esposti a venti freddi per favorirne l'infoltimento del
pelo, spesso impazziscono, arrivando anche ad automutilarsi, a causa
della reclusione e della privazione dei più elementari bisogni
etologici tipici della loro specie, quali la socializzazione e la
territorialità. Questi animali dopo aver sofferto a lungo per la
libertà negata vanno incontro ad una morte terribile. Prelevati dalle
gabbie e sollevati per la coda con delle pinze, vengono portati nel
luogo del massacro. Appesi ad un gancio, vivi e perfettamente
coscienti, gli vengono amputate le zampe con un coltello,
letteralmente segate; poi, con tutta calma, gli viene sollevata la
pelle delle zampe posteriori e strappata violentemente dal corpo. Gli
animali durante lo scuoiamento sono ancora vivi in quanto lo
stordimento che viene praticato, sbattendoli a terra violentemente,
non ha che un effetto momentaneo, per cui poi si risvegliano al
momento della scuoiatura.Se questo non bastasse, l'animale, così
completamente cosciente e privato della sua pelle, rimane in vita per
altri 5 - 10 minuti. Questo avviene in Cina ed è stato documentato
grazie all'Associazione Svizzera per la Protezione degli Animali e
l'Associazione East International che hanno condotto nell'inverno del
2004/2005 la prima investigazione al mondo sulle condizioni di vita
degli animali "da pelliccia" negli allevamenti cinesi, nelle
principali province in cui è praticato questo tipo di allevamento
(Shandong, Heilongjiang, Jilin, Hebei).Le riprese video di tali
investigazioni sono disponibili sul web per chiunque abbia voglia di
verificare con i propri occhi (http://www.peta.org/, www.protezione-
animali.com) ciò che è veramente difficile credere, ma che purtroppo
è realtà.L'atrocità di un mercato che mette in atto simili barbarie a
migliaia di chilometri di distanza dall'Italia non è tuttavia così
lontana come sembra. Al contrario, la ritroviamo in casa nostra: ogni
volta che entriamo in un grande magazzino o in un negozio
d'abbigliamento, nel reparto dei giacconi è purtroppo molto frequente
trovare la serie di quelli con cappuccio impellicciato, dove quella
pelliccia così soffice, calda, morbida, decisamente `carina' per
alcuni, non riesce proprio ad evocare, nella mente di chi non sa,
nulla di sanguinoso o immorale. Anche perché, diciamolo, molti
credono veramente che si tratti di pelliccia sintetica; invece quella
pelliccia è vera, tanto quanto lo sono le sofferenze che hanno subito
gli animali ai quali apparteneva, e che nessuno aveva diritto a
strappargli.
Negli ultimi decenni il mercato della pelliccia in seguito alle
campagne di sensibilizzazione promosse dalle varie associazioni
animaliste, tra cui l'OIPA e la Lav, ha subito una fortissima battuta
d'arresto andando incontro, alla fine degli anni '80, ad una vera e
propria crisi, registrando un vertiginoso calo (di oltre il 30%)
delle vendite dei prodotti. A livello mondiale si è passati da una
produzione di 48 milioni di animali nel 1988 a 31 milioni nel 1997,
scesi ancora a 29 milioni nel 1999 [Fonte: Oslo Fur Auction]. Nel
nostro Paese il numero di aziende complessivamente impiegate nel
settore della pellicceria (allevamenti, case d'asta, conciatori,
grossisti.) si è ridotto notevolmente, passando da oltre 6.000 unità
nel 1991 a 3.752 nel 2002 (fonte:16° Osservatorio pellicceria
italiana) anche se il dato più sorprendente è la progressiva e netta
diminuzione degli allevamenti nel corso degli anni: dai 170 nel 1988
ai soli 50 nel 2002 (fonte: Camera di Commercio)La riduzione delle
vendite di pellicce ha determinato un'energica reazione delle
industrie del settore e la conseguente necessità di ricercare un
altro sistema per rilanciarne la commercializzazione. L'industria ha
quindi escogitato, subdolamente, un nuovo modo per riproporre un
capo, la pelliccia, che sembrava avere altrimenti i giorni contati,
in quanto le ragioni etiche portate all'attenzione dalle associazioni
animaliste avevano avuto reale presa sull'opinione pubblica al punto
che la pelliccia in senso tradizionale non era più un prodotto in
grado di adattarsi alle nuove tendenze, perché eticamente non
accettato. Stravolta nella forma, nella funzione (non più come
indumento intero, per coprire e tenere caldo, ma come guarnizione,
semplice ornamento), nella dimensione, perfino nel colore, la
pelliccia venne riformulata sotto forma di `inserto', ossia di
piccolo ritaglio con cui rifinire bordi, cappucci, polsini, cuciture,
risvolti, ecc...A partire dai primi anni novanta gli stilisti
lanciarono quindi la nuova moda: giacche, cappelli, guanti, borse,
sciarpe, e accessori di qualunque tipo `ornati' di pelo animale,
certi che il consumatore apprezzasse il nuovo prodotto, non essendo
più in grado ormai di ricondurre così facilmente quel piccolo
ritaglio di pelliccia, così camuffato e rimpicciolito, ad un animale,
o comunque al concetto di pelliccia. E così infatti è stato. Le
guarnizioni di pelo vero hanno invaso il mercato, disorientando
l'acquirente il quale di fatto alimentava il business della pelliccia
senza effettivamente rendersene conto. Il fatto stesso che capi di
abbigliamento così `addobbati' siano stati pensati per giovani e
giovanissimi, proposti a prezzi accessibili, spesso decisamente
economici (oggi si trovano nelle bancarelle anche a 30 euro) ha
indotto a pensare che la pelliccia non `potesse' essere vera. Sono in
molti, poi, a credere che quel ritaglio di pelliccia, ancorché vero,
sia comunque il sottoprodotto e lo scarto di lavorazioni di pellicce
intere, più costose, e che sarebbe stato altrimenti buttato. Questa
supposizione è completamente sbagliata in quanto il mercato cinese
che alleva e scuoia gli animali in questo modo è invece rivolto
espressamente al confezionamento di giacche con bordi in pelliccia:
questa viene conciata e poi esportata in Europa dove le case di moda,
dai marchi più prestigiosi a quelli della moda giovane, la lavorano
cucendola su giacche e accessori. Quando pensando di metterci al
riparo dall'essere complici del massacro che avviene in Cina
verifichiamo con sollievo la targhetta con scritto `made in Italy'
stiamo cadendo ancora una volta nella trappola. Infatti un capo made
in italy può contenere un elemento di finitura di pelliccia
proveniente dall'estero, senza che sussista alcun obbligo per il
produttore di indicarne l'origine. Inoltre, le specie animali
impiegate per gli inserti sono differenti e ovviamente meno pregiate:
cani, gatti, procioni, conigli e volpi. Per le pellicce intere invece
in genere si allevano visoni e cincillà.
La parte in pelliccia del capo di abbigliamento non viene etichettata
perché non vige appunto l'obbligo quando il materiale in questione
costituisce una minima parte del prodotto, come appunto una bordura;
quando compare un'etichetta è sempre a titolo volontario e questo
avviene perché il produttore ci tiene in quel caso a specificare
l"autenticità" della pelliccia. Allo stesso tempo, però, per mettere
a tacere la coscienza del cliente non vuole rivelare la vera specie
dell'animale, che spesso è cane o gatto, e utilizza pseudonimi e nomi
di fantasia quali: wildcat, housecat, special skin, asian jackal,
asiatic racoonwolf , dogue of China, gae wolf, gubi, kou pi, ecc.
Questo sia perché la sensibilità dei clienti europei sarebbe turbata
dall'idea di avere pelle di cane sulle spalle, sia anche per un
problema di reali divieti, introdotti in Europa, che riguardano il
solo commercio delle pellicce di cane e di gatto.In Italia
l'allevamento, l'importazione e il commercio delle pelli di cane e di
gatto è illegale dal 2004 grazie alla legge 189/04 sui maltrattamenti
degli animali. Naturalmente le associazioni animaliste e gli stessi
consumatori - che stanno prendendo sempre più coscienza di ciò che
indossano anche sull'onda della cultura del consumo critico - stanno
cercando di accelerare il più possibile il processo di contrazione
del mercato della pelliccia che dagli anni `90 ad oggi è comunque in
atto, anche se, come detto, ancora lontano dall'essere definitamene
debellato proprio a causa della moda degli inserti.
Il principio al quale si appellano è, nemmeno a dirlo, di ordine
etico: un paese non potrà mai definirsi civile fino a quando
permetterà il commercio, sul proprio territorio, di capi di
abbigliamento derivanti da simili atrocità. In seguito ad azioni di
pressione di AIP (Attacca l'industria della pelliccia), da tre anni a
questa parte, alcune importanti catene di abbigliamento sono state
convinte ad adottare una politica "fur free", ossia a non vendere più
abbigliamento che contenga pellicce. Tra le altre troviamo UPIM, La
Rinascente, Oviesse, COIN, Coop, Guess, Zara, Stefanel. La speranza è
che sull'esempio di queste grandi catene di negozi che hanno il
potere di influenzare un'ampia fetta di mercato, il trend di giovani
e meno giovani subisca una significativa svolta verso un
abbigliamento cruelty free, per lo meno per quello che concerne le
pellicce, ossia il mercato che uccide gli animali appositamente ed
esclusivamente per la loro pelliccia.
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